Dove si muovono le prime pedalate di un romanzo che chissà mai se andrà avanti

araucania

(…)
Il primo villaggio apparve in pieno giorno, quando le ombre già rattrappivano sotto le cose, e consisteva in una ventina case col tetto in lamiera, i muri di sassi intonacati col fango e una sola via polverosa che lo solcava. Scendemmo di sella e c’incamminammo bici alla mano. Potevamo vedere: una taverna e un negozio; quattro vecchissimi uomini al centro della via, seduti su cassette di legno all’ombra di un platano, che giocavano a carte; due bambini alle loro spalle; alcune donne accovacciate sulle soglie delle case, a pelare patate o forse a intrecciare lana; qualche cane furtivo di razza indefinita. Oltre il villaggio, si alzavano colline brulle. Ci fermammo accanto al gruppetto.
Soldi non ne avevamo, e chi ci pensava mai ai soldi, ma c’era bisogno di mate, acqua, carne secca, pane, qualcosa. A me servivano un quaderno e una matita, per la mappa. Il Nandel voleva giocarsi una mano a carte come nei film, ma lasciò cadere l’idea poiché non aveva ancora l’anima del baro e la capacità di esercitarla. Forse ci mancava anche la lingua, la loro, noi avevamo solo la nostra, quella infantile. Provai lo stesso.
– Avete da bere?
I vecchi non si mossero, nell’impassibilità che sorge con l’avanzare dell’età e la necessità di non disperdere forze.
Uno dei bambini mi guardò e poi indicò il pozzo, in mezzo alla strada.
L’acqua tirata su con le bombillas del mate era fresca e con un buon gusto di ruggine. Ne bevemmo a sazietà e ci sedemmo appoggiati al muretto del pozzo a guardare il crocchio, avvolti dalla nostra stessa indipendenza. Che durò fino al momento in cui la fame si mise a pulsare negli stomaci. Mi alzai e andai dallo stesso bambino di prima, facendo un gesto orizzontale con la mano all’altezza del ventre.
– Mami, igafam! – gridò a una donna intenta alle patate, che alzando la testa dal suo lavoro ci fece un segno col dito, come se grattasse l’aria.
Legai la mia bici al palo della tettoia davanti alla casa della donna; il Nandel affidò la sua, scaricata dalle carabattole, al bambino del pozzo che, per via delle sue piccole membra inadatte alla dimensione del mezzo, rovinò nella polvere senza riuscire in una sola pedalata. Noi due provammo a restare seri, per questioni di ospitalità e fame, ma poi lo vedemmo infilarsi tra il telaio e ripartire con metodo sghembo ed efficace. Il Nandel si girò lentamente verso di me. – Come i Chiricahua.
– Gniscià canicc – gridò la donna indicando noi, il secchio e agitando due coltelli.
Sbucciammo patate per una mezzora, durante la quale mi si consolidò l’idea che fossimo prigionieri. Dalla porta aperta veniva un profumo di cipolle che “risveglierebbe un morto”, parafrasando dai libri che circolavano incessantemente dentro il Nandel.
La donna cacciò un urlo e quelli delle carte scattarono in piedi come a quindici anni e di corsa ci scavalcarono senza degnarci.
Poi mi toccò una spalla. – Surì maiè lepron – disse indicando il buio dentro la casa e poi invitandoci a ad alzarci. Entrammo coi coltelli in mano, non sapendo che farne. Attraversammo la casa dietro di lei, forse ancora prigionieri, e uscimmo dal retro, nel cortile dove i vecchi delle carte e altri apparsi da chissà dove si erano seduti a una tavola immensa ingombra di pollastri arrostiti e ciotole di riso.
– Apudì setas – disse la donna con tono di comando e indicando due sedie in mezzo a una torma di bambini, compreso quello della bici (ma senza bici però).
In sostanza, mangiammo tanto da torcerci le mandibole, in un frastuono di bocche che impastavano parole e cibo. Sotto la tavola, i cani frantumavano gli avanzi. Galline e galli osservavano  con perplessità, beccheggiando riso cotto in caduta dalla mensa. Senza la minima idea di che ora del giorno fosse, ci addormentammo abbracciati nell’amaca, con un cane placido a scaldarci i piedi.
Ancora adesso non la so descrivere, ma la sento ancora quella canzone che svegliò noi e il cane.

Can nastele lamer
labrusu sense vorei
Ombasin uvà
Onivers ulsavrà
can nastele lamer
famè famè 

Cioè, a svegliarci erano le cento voci di quel canto nel cortile illuminato dal fuoco. Era notte, sottozero, e le parole della canzone incomprensibili. Ma c’era un rapimento nei volti concentrati che rasentava l’estasi. Quando finì, ci fu un lungo silenzio, nel quale si poteva udire il respiro della terra.
Si sedettero attorno al fuoco e le donne servirono zuppa nella ciotola. Ci avvicinammo seguiti dal cane. La padrona di casa, quella delle patate, ci diede una ciotola a testa che riempì di un brodo vaporoso che a me ricordò i minestroni della mia nonna.
– Iepoi epansete – dichiarò un vecchio accanto a noi che si stava sbrodolando con estrema gaiezza.
– Penso, fagioli e pancetta. Come in Arizona – dichiarò il Nandel, che da quei paragoni forse traeva la forza per non guardare indietro, prima di tuffarsi eroico nella minestra.
Quanto a me, ero ancora sotto l’effetto della canzone e rischiai di farmi beffare dal cane, prontissimo ad arraffare la pancetta. Mi fece tenerezza e con la mano nella ciotola a fare setaccio, ne raccolsi una manciata e gliela diedi. La raccolse dalle mie dita con delicatezza. Forse faceva effetto la canzone anche a lui. Non sapevo a che punto della notte fossimo. Quell’intima allegria di persone sconosciute mi sprofondò nella malinconia di casa; tornai nell’amaca senza aver mangiato nemmeno un cucchiaio di minestra e piansi, ma non troppo. Non avevo le difese del Nandel, e non ne avevo ancora di mie contro il mostro del rimpianto. Chissà Anna? Anna era una ragazzina che certamente amavo come si può amare a quell’età, qualcosa a metà tra la superiorità del maschio e la fragilità della gelosia embrionale, quella che ti dici che ormai è finita quando la vedi che si siede al banco di un altro o che nelle passeggiate non si mette al tuo fianco sempre (che poi non andrebbe bene nemmeno questo, la virilità ne uscirebbe derisa dai compagni che, a loro dire, delle femmine non importa nulla). E la mamma? Quante volte avevo pensato che non avrei potuto vivere senza di lei e ora ero lì in quell’amaca, lontanissimo dal suo cuore. Un traditore. Mi mancava anche il papà, i fratelli e le sorelle, le zie, i nonni e le nonne, mi mancava la mia scodella del latte, la sedia, la slitta, il berretto di lana, i libri, la penna, la matita, i fogli, gli alberi, i prati, i soldatini e le biglie. Mi mancava l’odore di casa, del sapone, dei fiori, della scuola, della cantina, delle mele e dell’uva. Mi mancavano le lamentele dalle quali eravamo scappati. Mi mancava anche un futuro.
Poi ricominciarono a cantare, ma non fu come prima e il mio stato peggiorò fino alla misericordia del sonno.
(…)

gene

Postilla
Niente paura amigo: prima che tolgano la sicura ai ferrivecchi noi saremo già oltre i loro occhi spenti
Nandel


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